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Dimenticate l'idea dell'evoluzione biologica come un processo lineare, che avanza verso forme di vita sempre più numerose e complesse, fino a culminare (manco a dirlo) nella comparsa dell'uomo. Non è andata affatto così. Si è trattato di un percorso tortuoso, senza alcun indirizzo finalistico, con grandi esplosioni di nuovi organismi e terribili estinzioni, dominato dalla contingenza. In più di un'occasione eventi geologici, climatici o astronomici ne hanno condizionato il corso in modo nettissimo. Se non fossero accaduti, l'avventura della vita sulla terra avrebbe preso altre strade. E forse noi umani oggi non saremmo qui a studiarla.
Insiste su questo punto Telmo Pievani, filosofo della scienza all'Università Milano-Bicocca, nel saggio La vita inaspettata (Raffaello Cortina). Con lui e altri studiosi abbiamo analizzato rapidamente alcuni snodi decisivi per l'evoluzione. Una prima tappa risale a oltre 500 milioni di anni fa. La «esplosione del Cambriano», nota Pievani, vede un'enorme diversificazione di esseri viventi, con le più varie forme corporee, ma sono pochissimi i cordati, con un primo accenno di colonna vertebrale: «Basti pensare a Pikaia gracilens, un animaletto cieco, raro, piccolo e circondato da predatori aggressivi. Pareva un sicuro candidato all'estinzione, ma è molto probabilmente all'origine dei successivi pesci e perciò di tutti i vertebrati, noi uomini compresi». Come sottolinea Pievani, un'eventuale scomparsa di quei deboli cordati avrebbe lasciato il pianeta agli artropodi (crostacei, insetti, aracnidi...) e forse oggi la terra sarebbe popolata solo da animali con corazza esterna. «D'altronde - ricorda - attualmente la grande maggioranza delle specie è composta da artropodi, che occupano tutte le nicchie ecologiche possibili».

Tuttavia la sopravvivenza di Pikaia gracilensnon deve stupire troppo, osserva Giorgio Bertorelle dell'Università di Ferrara, ex presidente della Società dei biologi evoluzionisti: «Al contrario di quanto si pensa, ci sono momenti in cui il più debole prevale sul più forte, magari per via di eventi con una notevole componente casuale. A volte, se un fatto contingente porta all'estinzione del predatore, la preda prolifera, colonizza nuovi ambienti e può dare origine ad altre specie. E poi nell'evoluzione, oltre alla selezione naturale dei più adatti, c'è la deriva genetica casuale, per cui anche mutazioni favorevoli possono perdersi, mentre possono diffondersi forme indifferenti rispetto all'adattamento o leggermente svantaggiose».

Ma se i cordati fossero scomparsi, sarebbe pensabile oggi una terra abitata da enormi insetti, ragni e scorpioni, grandi come gli attuali mammiferi? «È un'idea ricorrente nella fantascienza - risponde Pievani -, ma gli studi hanno dimostrato che non si sarebbero mai sviluppati artropodi giganti, perché il loro esoscheletro sarebbe risultato troppo pesante». Come nota Bertorelle, «lo spazio delle possibili forme che può assumere un organismo vivente è immenso, ma resta condizionato da forti vincoli fisici, chimici e genetici».

Un'altra fase interessante si colloca nel Devoniano, fra 380 e 360 milioni di anni fa, con il passaggio dai pesci agli anfibi. «In quel momento - sostiene Pievani - l'evoluzione sperimenta soluzioni strutturali con 6, 7, 8, addirittura undici dita. E non si capisce perché abbiano attecchito le cinque dita, perché un modello con 6 sarebbe stato altrettanto vantaggioso». Insomma, se le cose fossero andate diversamente, forse oggi le nostre mani avrebbero un dito in più.

Poi vengono le grandi estinzioni dovute a immense eruzioni vulcaniche. «La più terribile - racconta Pievani - fu 250 milioni di anni fa, con emissioni che modificarono la temperatura e la composizione dell'atmosfera: la vita rischiò di scomparire. In un'analoga estinzione, 200 milioni di anni fa, perirono i crurotarsi, rettili competitori dei dinosauri. Questi ultimi invece sopravvissero. E dominarono la terra fino alla caduta di un gigantesco asteroide, 65 milioni di anni fa, che li cancellò quasi del tutto. Sopravvissero solo i dinosauri piumati, antenati degli uccelli».

La scomparsa dei grandi rettili favorì i mammiferi. «All'epoca - continua Pievani - i nostri progenitori occupavano nicchie interstiziali, erano piccoli roditori simili all'attuale toporagno. Ma l'estinzione dei dinosauri aprì grandi spazi ecologici, nei quali i mammiferi ebbero la possibilità di prosperare ed evolversi». E se non fosse caduto l'asteroide, oggi al nostro posto ci sarebbero i dinosauri? Pievani ritiene di sì, Bertorelle è più cauto: «Molti gruppi di grandi rettili erano già in declino, mentre i mammiferi si stavano diffondendo. E poi troppe volte l'evoluzione è stata indirizzata da eventi occasionali perché si possano avanzare ipotesi attendibili su quale corso avrebbe preso».

Milioni di anni dopo, la combinazione fra un fenomeno climatico globale e un evento geologico locale diede una spinta determinante alla comparsa di Homo sapiens, la nostra specie. Cruciale è la formazione della Great Rift Valley, l'immensa depressione tettonica che divide l'Africa orientale. «Succede così - dice Pievani - che nella parte occidentale del continente resta un clima umido, dove continuano a prosperare scimmie antropomorfe simili agli attuali scimpanzé e gorilla, mentre nell'Africa orientale si verifica un progressivo inaridimento, che induce quel genere di primati a prendere un'andatura bipede». Comincia così un'avventura affascinante, come spiega Giorgio Manzi, paleo-antropologo dell'ateneo romano La Sapienza: «Alcuni milioni di anni fa, la riduzione delle foreste portò alla scomparsa delle scimmie antropomorfe dall'Europa e da gran parte dell'Asia. Ma in Africa, a est della Rift Valley, quel processo fu più lento: la formazione di un ambiente misto con isole di foresta e larghi tratti aperti, 5-6 milioni di anni fa, favorì popolazioni antropomorfe con tendenza più spiccata a muoversi su due gambe. Così si fissò un carattere decisivo per il corso dell'evoluzione umana, perché camminando su due gambe si liberano le mani e si può arrivare (date altre circostanze) alla produzione dei primi manufatti in pietra».

Una nuova svolta si verifica circa 2,5 milioni di anni fa, quando appare il genere Homo: «A est della Rift Valley - continua Manzi - le foreste spariscono e si aprono le savane, che favoriscono la diffusione di bipedi con il cervello più grande, che adottano una dieta carnivora e producono manufatti archeologicamente riconoscibili. Appartengono al genere Homo: grazie alle nuove capacità, escono dall'Africa e si spostano in tutta l'Eurasia».


Poi, conclude Manzi, tocca finalmente a Homo sapiens: «La frammentazione dell'ambiente dovuta alle glaciazioni causa l'isolamento di popolazioni, che a sua volta favorisce cambiamenti evolutivi rapidi e importanti. Intorno a 200 mila anni fa, in Africa compare una variazione genetica per cui un nuovo equilibrio tra cervello e cranio consente (tra le altre cose) di sviluppare un linguaggio articolato. Nasce così Homo sapiens, una specie capace di interagire con l'ambiente in modo plastico, di diffondersi ancora di più sul pianeta e di competere con successo con gli altri appartenenti al genere Homo, come gli uomini di Neanderthal. Quando forme di vita molto simili convivono in uno stesso ambiente, sfruttando le medesime risorse, la forma più efficiente prevale e le altre si estinguono, senza bisogno di scontri cruenti». Va inoltre considerato, aggiunge Pievani, che la solitudine di Homo sapiens è piuttosto recente: «Circa 40 mila anni fa c'erano ancora cinque specie umane diverse presenti contemporaneamente sulla terra. Senza la Rift Valley, forse non sarebbero mai comparse; senza le glaciazioni, forse non si sarebbero ridotte a una sola, cioè noi».

Antonio Carioti
01 settembre 2011 16:21

fonte: ilcorriere.it
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